Simona, contatto FB.

 

“Mi fate schifo, siete una massa di froci schifosi che vogliono solo cercare maschi, froci come voi”.

Urlava come un’ossessa. Contro di me. E mentre urlava perdeva energia, come una batteria che si stava scaricando.

Forse sì, ha ragione lei. Sono un frocio che si veste da donna per rimediare maschi. Per cercare sesso nei locali ambigui in cui ci siamo relegate. Saune, club per scambisti, o dichiaratamente per gay. I Village, che sembravano una cosa fica, dove andavano anche gli etero. Ma alla fine sono sempre ghetti.

E posso dire che dovrei essere preparata a questa reazione. Che dovrei essere abituata, che dovrei averci fatto il callo. Ormai vesto da donna praticamente sempre. Al lavoro e con quel residuo di famiglia che mi è rimasto. Una sorella, delle nipoti che per parecchio mi hanno chiamato zio, ma che ora sono cresciute e hanno capito.

Eppure, a Simona, l’avevo detto subito, in chat, un'amicizia su Facebook. Ormai ho il lessico pronto e ottimizzato “guarda nasco maschio, ma vivo da donna”, oppure “non voglio prendere in giro nessuno…”

Lei aveva detto che non le importava, che potevo essere come volevo, sentiva che ero una persona con cui era in sintonia.

E così ci siamo date un appuntamento in un locale del centro, io sono andata con pantacollant (mi piace chiamarli ancora così, è vero, ho una certa età), una maglia lunga, i capelli raccolti. Nessuna frivolezza, nessun seno posticcio, bastano i miei. Una borsetta nera.

E ci siamo presentate abbiamo parlato. L’ho inquadrata da subito: donna che inizia ad avere il peso degli anni, un po’ trasandata, veste con velleità giovanili.

E poi il crollo della serata.

Ho capito dai discorsi che faceva che per lei ero solo una gallina da spennare. Mi vuole dare consigli per un’assicurazione, poi per insegnarmi a truccarmi, poi vende creme … insomma, capisco che rientra in quella categoria di persone che vuole convertire in soldi la solitudine; soldi per lei, solitudine degli altri.

E quindi inizia a bere. Forse il suo ragionamento è ‘non riesco a spillare soldi da questo, almeno ci rimedio una sbronza’. Inizia a dare in escandescenze quando capisce che non guadagnerà e che magari deve pure smezzare il conto (perché mai lo avrei dovuto pagare io?).

Potrò anche essere frocio, vestirmi da donna per di fare sesso con i maschi, ma non sono disperata come lei.

E mi domando perché io lo faccia. Perché sto dando tempo a persone così. Forse spero di averne incontrate talmente tante, che non sia possibile trovarne altre. Invece, anche lei.

Mi ha dato del frocio, come se poi fosse un insulto. Quando l’ha fatto tutto il locale ha avuto un istante di silenzio. Si sono girati, ciascuno avrà pensato quello che vuole, giusto il tempo per tornare a fare quello che faceva prima.

Allungo un paio di banconote al barista, sperando di pagare il giusto e me ne vado, dico “il resto chiedilo a lei”, e capisce che gli ho lasciato il cerino acceso in mano.

Torno in auto e faccio la strada nel buio della notte. Adoro Roma di notte, adoro l’assenza di auto, girare senza meta. Con il finestrino abbassato nonostante inizi a fare fresco, il vento nei capelli. Li adoro, anche se posticci.

Penso ‘ecco piazza Lante, famoso luogo di meretricio’. E subito mi dico ‘ma che cazzo di parole uso, qui ci sono le puttane, altro che meretricio’. Le trans, alcune bellissime. Per lo più giovani. Ricordo quando provai anche io a farlo. Rosa, una trans colombiana, mi aveva detto “Scusa, se ti piace, perché non vieni con me. Provi, e se non stai bene, smetti.”

Andai con lei. Mi vestì, mi dette indicazioni, mi aiutò con il trucco. Mi guardai allo specchio e devo dire che se avessi visto una come me, mi sarei fermato. Certo, che non fossi genetica si vedeva, ma non brutta.

Stare dall’altra parte. Tutti dovremmo farlo. Fino a quel momento ero stato cliente, diventai puttana.

Rosa mi disse “Ricorda, non devi andare per forza. Se vedi qualcuno che non ti piace, mandalo via, allontanati”.

Di auto ne passarono tante. Di sguardi ne catturai parecchi. Maschi vogliosi che mi guardavano in modo interrogativo ‘ma sarà donna?’, altri che ridevano. Altri facevano finta di essere impassibili. I più tristi: gruppetti che facevano il putantour. Alcuni si fermavano, mi facevano domande ironiche, tanto per farmi dire che lo prendevo al culo, che ero frocio. Una sorta di umiliazione che loro credevano di impartire. Così che fra loro poi potevano dire “hai visto quello…” e giù commenti, risate. Uno in particolare mi rimase impresso. Fu un breve istante: non partecipava alla goliardia, non faceva a gara per fare la domanda più imbarazzante… era triste. Drammaticamente triste. Pensai ‘amico, o fai come loro, anche facendo finta, oppure non li frequentare più: stare lì ti sta costando troppo.’

Anche a chi passava solo, rubavo uno sguardo. Magari non erano potenziali clienti, ma stavano veramente tornando a casa. Vicino al semaforo, quando erano fermi, sentivo i loro occhi a dosso, sentivo le loro voglie pruriginose, il loro desiderio di trasgredire. La loro eccitazione era mia. Ero io che la producevo in loro. E quando sentii quella consapevolezza, divenni più sfrontata. Petto in fuori e andavo avanti e indietro raccogliendo le loro eccitazioni come una prima attrice raccoglie gli applausi del pubblico.

Si fermavano.

Alcuni mi chiedevano quanto volessi. Come se non lo sapessero. Altri volevano solo vedermi meglio. Un mi disse se volevo salire.

Salii.  

“Ciao amore, come stai?”

“Ah, sei italiana, bene”

“Sì, amore, sono italianissima. Senti, gira qui”.

Quando ci appartammo nel parcheggio. Gli chiesi “cosa vuoi fare, ti piace se faccio così?” Iniziai a carezzarlo in mezzo alle gambe. Mezza età, un po’ sovrappeso, un po’ calvo, sicuramente aveva iniziato a portare gli occhiali. Forse aveva finito una cena con gli amici, o con i colleghi, e si era fermato per prendere un po’ di piacere dalla strada. “Sì, mi piace, non ti fermare”.

Mi tirai su il vestito. Mi levai le mutandine, e gli chiesi i soldi. Poi lo aiutai a levarsi i calzoni. Conducevo io il gioco, lui obbediva docilmente. Mi chinai su di lui, e feci il gesto che avevo visto fare decine di volte, da cliente: poggiare il gomito sinistro sul sedile del guidatore, l’avanbraccio parallelo fra il bordo del sedile e la coscia del l cliente, avvicinarmi al suo cazzo tenendo spostati i capelli e pomparlo, facendo in modo che il mio sedere fosse ben alzato, per ricevere le sue carezze. E infatti, mentre gli facevo un pompino, lentamente, delicatamente, iniziò a toccarmi il cazzo, le palle. Il culo.

Gli avevo infilato un preservativo, sentivo il sentore del suo pube, che tutti, immancabilmente, hanno poco pulito, ma non sentivo il sapore. Solo l’insulso sapore alla fragola. Mi sono sempre chiesta perché non facessero profilattici al gusto-cazzo. Perché usare fragola? Che poi a me piaceva pure, così quando mangiavo una caramella alla fragola, mi sembrava di sentire un cazzo. Gli scherzi della mente.

Mentre pensavo a questo sentii che dal suo cazzo sgorgò qualcosa. Alzai la testa per guardarlo. Aveva il capo reclinato. Sfinito. “Cara, è stato bellissimo”.

Lui apparì soddisfatto, gli diedi un paio di fazzolettini, si levò il profilattico, lo chiuse in uno dei due, con l’atro si pulì. Presi fazzoletti e profilattico, compreso la sua bustina, e li misi in borsetta. Tutto velocemente, con una velocità che mi stupì.

“Sei stata bravissima, ma posso rivederti?”

Accidenti, ora mi chiede un appuntamento.

“Caro, sto sempre qui, quando vuoi”.

Mi riportò al semaforo dove scesi. Rosa mi aveva vista andare e fu felice di rivedermi.

“Allora, com’è stato?” era preoccupata. Come una mamma con la sua bambina la prima volta all’uscita di scuola.

Vago con la mente e l’auto. Sto ripassando dove c’erano le mie scuole, elementari medie e asilo. Viale di Tor Marancia incrocio Via Odescalchi. le elementari sono completamente sventrate, è rimasta solo l’intelaiatura di acciaio, le medie sono state trasformate in un liceo artistico, forse sperimentale, l’asilo è stato completamente spianato, c’è solo un prato incolto. Erano costruzioni rapide, nate per contenere l’esplosione demografica degli anni 60. Fatti con prefabbricati, pieni di amianto.

Decido di fare due passi.

Parcheggio e giro per le strade che facevo quando ero piccolo. Mi fermo a guardare l’edificio del Liceo, quello che fu la mia scuola media. Si ferma un’auto alle mie spalle.

“Ciao bella, quanto vuoi?”

Mi guardo: pantacollant, maglione, borsa nera, da vecchietta, scarpe mary jane capelli raccolti. Certo, mi dico, la fame deve essere tanta per volermi.

“Mi dispiace, ma non faccio il mestiere, se vai avanti…”

Non ho realizzato quello che sta accadendo. E’ successo tutto in un attimo. E’ sceso, mi ha dato una botta in testa, per fortuna che la parrucca ha attutito il colpo. Riprendo i sensi e mi trovo riversa sul cofano dell’auto, a gambe divaricate e lui mi sta scopando, spingendomi testa e tutto l’addome sull’auto. Il dolore è forte, ma più emotivo che fisico.

Ricordo le sue parole “Puttana, frocio, fammi godere”. Ripetute all’infinito.

Ma mentre lui invoca e pretende un piacere che avrebbe potuto avere anche con una masturbazione, io sono da un’altra parte. Vedo la fontanella dove uscendo da scuola mi fermavo per bere. Il benzinaio dove lavorava un ragazzo molto carino, e l’angolo dove facevano il grafitaggio alle auto. Che avrà voluto dire grafitaggio? Mi disse papà che era un’operazione che facevano lì. Ora, ovviamente, è tutto chiuso, vista l’ora.

Il bruto si solleva, soddisfatto e moscio, mi fa scivolare a terra, come uno di quegli stracci che usano per lavare le auto. Anzi, peggio, quegli stracci vengono lavati, strizzati con cura quindi appesi. Parte lasciandomi lì a terra. Cadere sul marciapiede mi ha fatto più male della sodomia forzata, moralmente sono devastata. Mi chiedo perché di quella violenza. Tutto sommato non mi aveva fatto più male lui di altri da cui l’ho preso. E quella domanda mi rimase stampata in mente, insieme alle invettive di Simona: “Mi fate schifo…”

 

 

 

 

 

 

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